Piccolo è bello, Grande è sovvenzionato
Recensione al libro di Steven Gorelick
Carlo Corsale - 20/12/2007
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Perché le tasse che paghiamo dovrebbero servire per sovvenzionare la costruzione di importanti svincoli autostradali a vantaggio di giganteschi centri commerciali? Oppure ancora, di aeroporti internazionali per trasportare merce di qualunque genere in qualunque posto?
Il libro di Gorelick si apre con questi interrogativi, domande quasi inascoltabili per le orecchie di un qualunque uomo politico ed oramai decisamente stridenti perfino per l’uomo comune. L’infezione dello sviluppo a tutti i costi, del progresso senza soluzione di continuità (e soprattutto in totale assenza di una riflessione su costi e perdite che non riguardino solo l’aspetto finanziario, ma anche elementi come armonia tra economia e ambiente e sobrietà nel rapporto tra uomo e natura) sono pilastri tanto fondanti nella società del benessere in cui viviamo, che minarne la credibilità risulta generalmente operazione oltre che di importante ricerca, anche di sovraumana pazienza.
Pazienza spesso minata dalla consueta litania esercitata dai fautori del progresso senza se e senza ma, nei confronti di quei poveri pazzi che vorrebbero invertire la rotta e sostenere l’inefficacia e la pericolosità del modello di sviluppo dominante in occidente. C’è effettivamente da chiedersi se contributi come quelli che giungono da Gorelick e dal gruppo di ricerca in cui lavora (l’ISEC, Società Internazionale per l’Ecologia e la Cultura) abbiano la possibilità di attecchire con successo in un mondo che sembra voler percorrere la strada dello sfascio, senza fermarsi a guardarsi dietro perché troppo impegnato a godersi i suoi effimeri successi.
Ma fortunatamente le cose iniziano a prendere una piega diversa, la discesa agli inferi sembra meno ripida e qualche rada insofferenza di natura popolare contribuisce a mettere il freno alla rapidità che contraddistingue il nostro turbocapitalismo. Sono proprio le insorgenze popolari, quelle rimostranze che giungono dal basso a stimolare il discorso centrale nel libro: è alla piccola comunità che l’autore volge il suo sguardo.
Piccolo è bello, Grande è Sovvenzionato è un saggio che muta le prospettive di chi guarda con occhio critico agli sviluppi (a tratti inseguibili) della società occidentale.
Guarda, non senza l’occhio esperto in materia finanziaria, a quei movimenti che si celano dietro insospettabili decisioni politiche, dimostrando con chiarezza espositiva quanto forti siano le collusioni tra politica e corporation. Spesso condite da legami fortissimi - talvolta personali, talvolta di parentela - queste collusioni nascondono l’intenzione fortissima da parte delle grandi multinazionali, di incidere sull’iter legislativo di stati sovrani che sono totalmente in balia di un ricatto esercitato quotidianamente da parte della grande distribuzione, che minaccia di mutare la sede di investimento a seconda delle agevolazioni finanziarie di sorta.
E si sa, attualmente pochi stati che volessero contare in termini finanziari e di prestigio, potrebbero permettersi di rinunciare alla presenza di immensi centri commerciali nelle loro strade: perché portano lavoro, hanno prezzi bassi e la gente può passarci giornate intere! Come se la massima aspirazione per un essere umano fosse quella di farsi dire ciò che deve fare e dove deve farlo, possibilmente entro gli orari di apertura e di chiusura del grande magazzino!
Logicamente fin tanto che i valori di riferimento saranno quelli che adombrano l’occidente, lo scenario potrà mutare ben poco.
Come sostiene Alain de Benoist: “la crisi attuale, nel suo insieme, proviene dalla contraddizione che va esasperandosi tra l’ideale dell’uomo universale astratto, con il suo corollario di atomizzazione e di spersonalizzazione dei rapporti sociali, e la realtà dell’uomo concreto, per il quale il legame sociale continua ad essere fondato sui legami affettivi e sulle relazioni di prossimità, con il loro corollario di coesione, di consenso e di obblighi reciproci”.[1]
Ed ecco che il libro di Gorelick corre in soccorso al lettore, dipinge realtà che rifiutano di stare al gioco, svela teatri che macinano trilioni di dollari in barba a convezioni sulla sicurezza nel luogo di lavoro, sulla congruità dei prodotti (spesso chimici) alle norme sulla circolazione sul mercato, parla chiaramente di quanto pressante sia la presenza dello Stato nel mondo dell’industria multinazionale. Si tratta però di un ruolo svuotato di ogni potere di gestione e coordinamento, un mero agire per costrizione che spinge lo Stato a finanziare ricerche e progetti privati al fine di non vedersi tagliato fuori dal gioco.
Negli Stati Uniti (sui quali il libro indaga intensamente) interi reparti di ricerca delle maggiori facoltà universitarie sono creati da finanziamenti provenienti da multinazionali del settore (si tratti di chimica, biologia, alimentazione) che fanno in modo di ottenere in esclusiva – grazie all’opera di incentivo quasi tentacolare – quei brevetti capaci di renderle ancora più forti sul mercato. Ne emerge un totale asservimento dell’università statale alle logiche private, soldi dei contribuenti che finiscono per ingrassare – direttamente o indirettamente – le già gonfie tasche dei pochi che tengono in mano i fili del teatrino.
Ma come avviene lo stritolamento della piccola azienda? Come vengono messi all’angolo i piccoli imprenditori o coloro che operano sul locale e soprattutto per il locale?
Le scelte governative si dirigono verso un’economia sempre più globalizzata: le tasse coprono molti dei costi, sovvenzionando il mercato dei grandi a discapito di coloro che essendo piccoli possono basarsi solo sulle loro risorse. Il connubio tra corporation e politica genera delle leggi standard per l’economia del libero mercato nella quale non è prevista, né gradita (perché poco produttiva e perché genera la coesione sociale e il legame con il locale) la piccola attività: la quale è costretta ad affrontare spesso dei costi di gestione e manutenzione altissimi per rispondere a logiche che non la riguardano. Si pensi ad un pastore europeo che per decenni abbia preparato il suo prodotto nella stanza che affianca la stalla dei suoi ovini, o che abbia praticato l’affumicatura dei suoi salumi in maniera artigianale, vendendo quei prodotti nel mercato rionale o comunque su scala locale (al massimo regionale); immaginate quanti e quali costi esorbitanti dovrebbe affrontare per piastrellare con mattonelle specifiche i suoi pavimenti o quanto debba sborsare per ammodernare le sue cucine allestendole con piastre in acciaio inossidabile. Tutte cose richieste – anzi imposte – dalla Comunità Europea, che in tema di standard riesce spesso a rendersi ben peggio che ridicola.
Il tutto per cosa? Per la rigidità nei controlli sulla sanità degli alimenti in commercio?
Non scherziamo, sarebbe sufficiente operare una ricerca banalissima per scoprire centinaia di scheletri negli armadi di decine di multinazionali nel campo alimentare e chimico, o ancora peggio basterebbe farsi consigliare una dieta da un oncologo che si sia occupato di tumori all’apparato digerente per farsi consegnare una terrificante lista sulla quale campeggiano in bella vista i prodotti di corporation che vendono, producono, inquinano e distruggono i legami sociali in tutto il mondo.
Gorelick quindi invita alla sobrietà dell’esistenza, produce un ragionamento che si slega dalle logiche di utilità e profitto per abbracciare le esigenze del locale. Per dirla con Zarelli: “Mentre la globalizzazione (il mondo visto come un tutt’uno suddiviso in parti meccaniche) è un prodotto della modernità e degli strumenti scientifici, il localismo è il normale modo di vedere dell’uomo: vista limitata, sensi limitati, possibilità di spostamento limitata, possibilità di conoscenza limitata. Si può pensare che il localismo è il modo di pensare ecologico per eccellenza, perché lega l’uomo alla natura, al territorio e non ad una visione costruita, pensata, virtuale. Il legame con un territorio dato, rende uomini e popoli consapevoli del concetto di limite. Il limite è proprio ciò che la modernità vuole spezzare, oltrepassare, distruggere”[2]. Gorelick disegna uno scenario su cui campeggi la delocalizzazione delle risorse sia energetiche che di sostentamento. E come riuscire in questo intento, se non scherandosi con i popoli che lottano per la salvaguardia del loro territorio? Senza andare lontano, proprio in Italia si assiste al fenomeno del NO TAV che può e deve essere canalizzato nel modo migliore.
Lo stesso saggio che oggi recensiamo è nutrito di esempi di intere regioni che si ribellano alla dittatura del veloce e del grande a vantaggio del locale e del piccolo.
Ciò che conta è slegarsi dall’ipocrisia dei nostri tempi, l’elemento fondamentale su cui deve poggiare il dissenso deve essere il no verso tutto ciò che viene prospettato come sostenibile; non ci può essere un sviluppo sostenibile, perché non ci può essere uno sviluppo buono contro uno sviluppo cattivo. E’ necessario schierarsi per le scelte radicali, diversamente la strada verso il baratro si tingerà di qualche tornante in più ma sarà sempre in discesa.
Per questo motivo ha generato in noi qualche dubbio un passaggio dell’introduzione scritta da Helena Norberg-Hodge in cui viene disegnato con fare speranzoso un futuro in cui: “un raggruppamento di stati sovrani possa avere il potere di creare un campo da gioco di un’economia globale che non solo vieti i monopoli, ma che protegga i diritti umani e dell’ambiente a livello internazionale”.
Non necessitiamo di un’ennesima coalizione di buoni che ci salvino dai mali assoluti di turno, non si può pensare di radicalizzare il proprio rifiuto per questo modello di sviluppo se ancora si considera determinante in termini positivi il sostrato valoriale che permea i diritti umani. Se non si comprende come e quanto gli stessi diritti umani siano coinvolti nei processi di omologazione che sottendono la globalizzazione, si rischia di voler cercare – commettendo l’errore cui si faceva riferimento sopra – una faccia buona nello sviluppo.
Per citare ancora de Benoist: “L’universalismo tende a ignorare o cancellare le differenze. Nella sua formulazione canonica, la teoria dei diritti, appare poco indulgente verso ogni diversità culturale, almeno per due ragioni: in primo luogo a causa del suo individualismo innato, nonché del carattere profondamente astratto del soggetto, di cui proclama i diritti. In secondo luogo, per i suoi legami storici privilegiati con la cultura occidentale, o comunque con una delle sue tradizioni costitutive”.[3]
Ancora de Benoist citando Pannikar: “[…] proclamare i diritti dell’uomo […] potrebbe presto rivelarsi essere un cavallo di Troia, introdotto segretamente nel cuore di altre civiltà, per obbligarle ad accettare modelli di vita e sistemi di idee che impongono i diritti dell’uomo come strumento di soluzione dei conflitti”.[4]
Rifiutiamo quindi un futuro in cui coalizioni di Stati si possano accordare per imporre un modello alternativo, crediamo che debbano essere le singole comunità nazionali a dover prendere coscienza in maniera autonoma dei problemi legati allo sviluppo. L’universalismo non può produrre che grossolane generalizzazioni, attualmente la risposta deve generarsi dal ritmo lento delle comunità locali. Se a favorire questo processo debbano essere le insorgenze popolari o una presa di coscienza dello stato nazionale, non è dato saperlo. Ciò che conta è rifuggire dall’eterna internazionalizzazione dei problemi, infezione che logicamente si lega al modus vivendi e alla mentalità che la globalizzazione si porta dietro.
Nonostante le perplessità suscitate dall’introduzione, il libro di Gorelick può facilmente inserirsi tra quei contributi capaci di risvegliare le coscienze sopite, proprio perché va a toccare elementi che la società vive nel quotidiano, come i grandi centri di distribuzione e le multinazionali del settore alimentare. Figure che, se smascherate opportunamente, dimostrano di essere poco allenate allo scontro, muovendosi con la grossolana goffaggine del famoso elefante nel negozio di cristalli.
Merita una menzione particolare la sezione del libro dedicata al mondo della scuola, in cui l’autore descrive attentamente la situazione dei sistemi di educazione americani, opponendo ad essi una scuola capace di inserirsi all’interno delle dinamiche e delle esigenze del locale e anteponendo la famiglia e la comunità alle esigenze del mercato.
Possiamo quindi affermare, con certezza e non senza un pizzico di rabbia che: Piccolo è bello. Grande è sovvenzionato!
NOTE
[1] Alain de Benoist. Le sfide della postmodernità, Arianna editrice, pag 84
[2] Eduardo Zarelli in L’insorgente “Quaderno primo”. Piccolo è bello? Agire nel locale significa saper pensare in grande, pag 6
[3] Alain de Benoist. Oltre i diritti dell’uomo, per difendere le libertà, pag 54
[4] R. Pannikar, La notion des droits de l’hommr est-elle un concepì occidental?, Diogene, ottobre-dicembre 1982
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Categorie: Decrescita,Ecologia e Localismo
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