Vita da polli
Pronti in 33 giorni, imbottiti di antibiotici, incapaci di reggersi sulle proprie zampe a causa del peso spropositato, costretti ad alimentarsi 24 ore su 24.
Saverio Pipitone - 13/12/2010
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Il 26 agosto del 1789, in piena Rivoluzione francese, venne emanata la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Dopo duecento anni e innumerevoli passi avanti sulla strada del “progresso”, il 15 ottobre del 1978 veniva proclamata a Parigi la dichiarazione universale dei diritti dell’animale con la quale si stabilisce che tutti gli animali nascono uguali davanti alla vita e hanno gli stessi diritti all’esistenza (articolo 1). Nel caso che l’animale sia allevato per l’alimentazione, deve essere nutrito, alloggiato,trasportato e ucciso senza che per lui ne risulti ansietà e dolore (articolo 9).
In quegli stessi anni, gli attivisti animalisti erano molto critici nei confronti dell’allevamento industriale; Ruth Harrison, autore del libro Animal Machines (1964), denunciava i sistemi di produzione intensiva di vitelli, suini e avicoli, rivendicando le cinque libertà dell’animale: alzarsi, sdraiarsi, girarsi, stendere gli arti e pulirsi senza difficoltà.
17 chili a testa
Fino agli anni Cinquanta del secolo scorso i polli crescevano circa 2 chilogrammi in 63 giorni. Oggi, invece, un pollo industriale (il broiler, una razza appositamente selezionata in relazione alle esigenze dell’allevamento industriale: quantità, velocità, basso costo) è “pronto” in soli 33 giorni: uno sviluppo troppo rapido che ingrossa a dismisura ossa, polmoni, cuore e corpo. «Non ci reggiamo sulle zampe – racconta un pollo moderno – zoppichiamo e stiamo spesso seduti sulle lettiere sporche, molti contraggono malattie alla pelle. Per prevenire le malattie che potrebbero compromettere la nostra vendita, ci imbottiscono di antibiotici» (tratto dal libro Cosa Mangia il pollo che mangi? – Arianna Editrice).
In Italia l’industria del pollo è fiorente – come il viso rubicondo di un simpatico signore dall’accento romagnolo che dagli schermi televisivi ci invita a mangiare insuperabili rollè precotti di tacchino e pratiche cotolette pollo e spinaci. Le aziende riproduttrici sono 250, gli allevamenti 5.586 (che salgono a 8.382 se contiamo anche quelli da uova), gli incubatoi 114; ad essi si aggiungono 116 macelli, 451 laboratori di sezionamento, 158 depositi frigorifero e 55 centri di riconfezionamento (dati aggiornati a giugno 2009, NdR)
Nel 2006, l’industria della carne avicola ha fatturato 2.580 milioni di euro (che equivale al 2,3% del settore alimentare) con 32.836 tonnellate esportate e 6.071 importate (Paesi extra Ue). Si sono allevati 149 milioni di polli distribuiti fra Emilia Romagna (21%), Lombardia (22%), Veneto (26%) e altre regioni (5%). L’intera produzione avicola ammonta a 1.048.800 tonnellate con oltre 400 milioni di capi macellati, di cui 372,19 milioni solo di broiler.
Con un acquisto medio di 2,14 kg e un consumo pro-capite di 17,1 kg (nel resto del mondo è di 12,3) la spesa per l’acquisto di carne avicola copre il 27% della spesa mensile di una famiglia media italiana.
Cotoletta batteriologica
La rivista Altroconsumo, organo dell’omonima associazione di consumatori, ha proposto, nel fascicolo 220 di novembre 2008, un’inchiesta sul pollo d’allevamento: 59 campioni di broiler (acquistati e trasportati in laboratorio con furgoni frigoriferi, per non interrompere la catena del freddo) sono stati sottoposti a dettagliate analisi di conservazione, igiene e patologia.
Il risultato? «Ci sarebbe da mettersi le mani nei capelli – scrive Altroconsumo – e bandire il pollo dalle nostre tavole». La contaminazione batterica presente nella carne è principalmente imputabile alla crescita “esponenziale” a cui sono sottoposti i broiler: gonfiati, appesantiti e incapaci di muoversi, sono esposti a patologie a carico delle zampe e della pelle.
Le analisi hanno evidenziato la presenza di bacilli di salmonella che, se trasmessi all’uomo, provocano febbre, diarrea, dolori muscolari, crampi e vomito.
Il problema delle patologie comincia dall’allevamento e si protrae per tutta la filiera, fino al banco del supermercato: il pollo non deve essere esposto a sbalzi di temperatura e la catena del freddo deve essere sempre efficiente. I campioni analizzati da Altroconsumo sono stati acquistati in diversi punti vendita, nella tradizionale bottega sotto casa e nella moderna distribuzione organizzata: il pollo comprato dal macellaio è risultato migliore di quello del supermercato.
Eppure, in seguito a una ricerca sulla cultura alimentare degli italiani realizzata nel 2007 dall’esperto Daniele Tirelli, è emerso che il consumatore, in termini di sicurezza alimentare, preferisce il pollo della GDO (la grande distribuzione organizzata): circa l’80% degli intervistati è soddisfatto del rapporto qualità-prezzo del pollo del supermercato, non considerando che il basso costo è sinonimo di una filiera inefficiente.
L’inchiesta di Altroconsumo boccia produttori e distributori per scarsa igiene e cattiva conservazione del broiler nei vari passaggi della filiera e fornisce consigli su come evitare i pericoli connessi alle patologie: è preferibile comprare il pollo e consumarlo in giornata, tenerlo in frigorifero coperto con cellophane o all’interno della propria confezione, lavare bene le mani e gli utensili da cucina dopo avere maneggiato il pollo crudo; cucinarlo accuratamente a più di 70 gradi e controllare che non resti crudo.
Vita da allevamento
Oggi inizia a farsi strada una concezione del benessere animale intesa come well-being sia fisico che mentale: deve esserci una condizione di adattamento o armonia fisico-psicologica tra l’organismo e il suo ambiente caratterizzata dall’assenza di privazioni, lesioni, malattie, disturbi comportamentali, stimoli avversi o qualsiasi altra limitazione imposta dall’uomo che influenzi negativamente l’efficienza di un animale.
Le problematiche della salute animale variano, a diversi livelli, in funzione della specie, delle condizioni di allevamento e del grado di intensità. In passato, ad esempio, nel settore avicolo industriale i polli erano allevati in batteria, mentre le galline erano tenute a terra. Ne conseguiva una bassa consistenza della carne da un lato e uova sporche di feci dall’altro che erano la causa primaria di numerose patologie. Recentemente, il pollo è sceso a terra per accrescere la consistenza della carne e la gallina è salita in batteria per ridurre i problemi igienico-sanitari: mentre il pollo può, teoricamente, correre, svolazzare e irrobustirsi per fornirci una carne più sostanziosa, le galline non calpestano più gli escrementi e l’uovo viene deposto su un nastro trasportatore.
Anche il broiler è allevato a terra senza gabbie ma in un ambiente chiuso, controllato da parametri produttivi che puntano alla massima crescita nel minor tempo possibile.
Le critiche nei confronti dell’allevamento industriale sono rivolte ai programmi di alimentazione intensiva e alla continua illuminazione, a cui si associano la poca attività motoria, gli accovacciamenti forzati sulla lettiera, i problemi allo scheletro e alle zampe e le lesioni alla pelle.
La densità dell’allevamento determina la buona salute o meno del pollo ed è la causa primaria dell’aumento del rischio di patologie in caso di cattiva gestione o scorretta alimentazione. Negli ultimi anni, il Comitato scientifico europeo della salute e del benessere animale ha osservato che la crescita esponenziale delle specie animali non va di pari passo con un soddisfacente livello di benessere. Per questo motivo, il 12 luglio 2007 è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale comunitaria la direttiva europea 2007/43/CE contenente le norme minime per la produzione della carne avicola, a cui tutti gli stati membri dovranno adeguarsi entro il 30 giugno 2010. L’attenzione dell’UE si è focalizzata sugli allevamenti di tipo intensivo, cioè quegli allevamenti con oltre 500 polli: le nuove regole stabiliscono una densità massima di 33 chilogrammi/ metro quadrato (in Italia lo spazio per la densità è di oltre il 10% in meno, mentre in Danimarca e Olanda si arriva fino a 40-42 kg/m2).
Secondo quanto stabilito dalla normativa, i polli hanno il diritto di avere:
• degli abbeveratoi efficienti e raggiungibili;
• disponibilità del mangime;
• la lettiera asciutta e friabile in superficie;
• una sufficiente ventilazione;
• un basso livello sonoro e una situazione climatica adeguata;
• dei controlli e delle ispezioni due volte al giorno per valutare il loro livello di salute.
Il proprietario dell’allevamento ha l’obbligo di tracciare il sistema produttivo su appositi documenti in cui vanno specificate la dimensione delle superfici occupate, i sistemi di ventilazione, di raffreddamento e di riscaldamento, l’alimentazione e l’approvvigionamento d’acqua, i sistemi di allarme e di riserva in caso di guasti delle apparecchiature, il tipo di pavimentazione e di lettiere usate. La direttiva prevede anche un’appropriata formazione degli operatori avicoli sulla fisiologia (il comportamento e il fabbisogno), sulla manipolazione del pollame (cattura, carico e trasporto), sulla cura di emergenza (uccisione e abbattimento) e sulla bio-sicurezza.
Nonostante questi miglioramenti l’interrogativo sulla qualità della carne di pollo presente sulle nostre tavole permane, e viene spontaneo chiedersi se sia logico e sano consumarne oltre 17 chilogrammi a testa l’anno: forse sarebbe opportuno ridurre i nostri consumi di proteine animali e riscoprire il sapore del pollo ruspante, magari gustato una volta la settimana e non un giorno sì e uno no.
Per imparare a riconoscere un “vero” pollo si trovano utili indicazioni anche in rete: sul sito www.biozootec.it si può consultare il “Manifesto del Pollo ruspante e biologico” che elogia l’allevamento estensivo in quanto capace di coniugare «biodiversità e legame con il territorio, competitività, diversificazione, rintracciabilità, integrità dei suoli e protezione dell’ambiente, salubrità delle carni e resistenza alle malattie».
Articolo estratto dal Consapevole n° 19.
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Categorie: Alimentazione e salute
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