La favola della crescita
Il dogma della crescita impone ai singoli e agli Stati un salatissimo prezzo da pagare: scopriamo quale
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Tutti sanno che, per bene che possa andare, la crescita di un Paese a economia avanzata come l’Italia non può andare oltre l’1-2%; quindi è totalmente insufficiente a tirarci fuori dalle secche del debito pubblico.
In altre parole, la vecchia politica dell’austerità sarà destinata a durare e il problema vero dei governanti è quello di continuare a impoverire i cittadini tenendoli buoni.
Non a caso i politici sono sempre di più degli imbonitori, che usano le stesse tecniche dei venditori ambulanti per fare colpo sui cittadini.
Difficilmente dicono cosa vogliono fare, ma ottengono consenso perché sanno dire le cose che alle persone piace sentire; sanno creare le parole d’ordine che fanno presa perché inorgogliscono; sanno spostare l’attenzione dai contenuti ai modi di fare, la velocità ad esempio.
Sanno far sentire la gente parte di un cambiamento di cui nessuno conosce i connotati, ma che dà speranza. Silvio Berlusconi e Matteo Renzi sono maestri in queste tecniche. La crescita è perfetta per imbonire.
Non solo perché chiude ogni discussione sulle cause del debito e sulle altre soluzioni possibili, ma anche e soprattutto perché induce alla remissività. Mette in moto una psicologia da terra promessa che induce ad accettare ogni sacrificio. «La crescita verrà, ci stiamo lavorando, già si vede la luce in fondo al tunnel», continuano a ripeterci.
Quando però avrà la bontà di materializzarsi, nessuno lo sa. Nel frattempo si tira avanti come prima, peggio di prima. Un miraggio per tenere la gente tranquilla e renderla disponibile a chinare la testa: questo è la favola della crescita.
Per come è messo lo Stato italiano, la crescita è una favola non solo al 17%, ma anche all’1%, per la semplice ragione che per crescere ci vogliono investimenti, ossia soldi. Ma di soldi il governo italiano non ne ha, né può procurarsene, perché è dal 1981, quando avvenne il divorzio tra la Banca d’Italia e il Tesoro, che non ha più sovranità monetaria. Perciò non è in grado di fare spesa pubblica.
Cosa si intende per crescita, oggi?
I nostri governanti, e quelli di tutto il mondo, conoscono talmente bene questa situazione che, quando dicono di voler stimolare la crescita, in realtà affermano di voler creare le condizioni affinché le imprese promuovano la crescita. Il piano, insomma, è quello di rendere la realtà del proprio Paese talmente appetibile da invitare le imprese a investire da loro.
In effetti, la globalizzazione ha creato una situazione tipo casa di tolleranza. Le nazioni vengono esposte in vetrina, come tante prostitute che per attirare i clienti indossano veli provocanti e mettono in evidenza le proprie curve sensuali.
Le imprese, nei panni dei clienti, fanno ricadere la propria scelta sulle nazioni più prestanti. Ossia garantiscono bassi costi del lavoro, bassi costi energetici, basse tasse; ma anche buoni trasporti, esportabilità dei profitti, tutela degli investimenti, mano d’opera preparata e tante altre condizioni favorevoli agli affari.
Ciò spiega perché, da quando l’Europa ha cominciato ad avvitarsi attorno al problema del debito pubblico, molti Paesi hanno congelato i salari minimi legali e alcuni li hanno addirittura ridotti.
Valgano come esempio l’Irlanda, che nel febbraio del 2011 li ridusse del 12%, e la Grecia, che arrivò addirittura al 22%.
Riforme strutturali: di cosa si tratta?
Spiega anche perché sulle bocche dei governanti sia comparsa l’espressione “riforme strutturali”. Un’espressione simile a un’altra, “programmi di adeguamento strutturale”, adottata dal Fondo monetario internazionale e dalla Banca mondiale nei confronti dei Paesi poveri (in realtà, ricchi di risorse).
Il fine ricatto oramai è noto: le banche prestano i capitali, su cui riscuotono ingenti tassi di interesse. Poi, quando i Paesi non ce la fanno più, interviene il Fondo monetario, che condiziona i propri prestiti all’abbattimento della spesa pubblica, alle privatizzazioni, alle liberalizzazioni; in altre parole, impone delle politiche neoliberiste che vanno a vantaggio delle corporation.
Un esempio è la Nigeria che, pur essendo l’ottavo Paese al mondo produttore di petrolio, importa il 70% di benzina, ovvero paga a suon di dollari il petrolio che essa stessa produce perché viene raffinato dalle multinazionali straniere.
In Europa nessuno specifica cosa si intenda per “riforme strutturali”, ma lo capiamo dai fatti: prima di tutto, modifica dei modi di assumere e licenziare.
Una riforma che chiamano “del mercato del lavoro”, a conferma che nella mentalità mercantile il lavoro è né più né meno che una merce da vendere e comprare. L’intento della riforma è quello di rendere legittima qualsiasi forma di assunzione utile alle esigenze di impresa, senza tenere conto della precarietà in cui si gettano i lavoratori.
Non solo flessibilità in entrata, ma anche in uscita; il che, tradotto, significa libertà per le imprese di licenziare chi vogliono e quando vogliono, ad esempio tutti coloro che fanno attività sindacale, senza rischio di subire processi o condanne.
Un’altra riforma è quella della pubblica amministrazione, per snellire le pratiche utili ad avviare attività produttive. Ma se da una parte è sacrosanta la necessità di annullare gli inutili passaggi per un timbro, dall’altra c’è il grande rischio che si cancellino anche i controlli per la verifica degli impatti ambientali, paesaggistici e sociali. Il che costituirebbe un grave danno per l’interesse collettivo.
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Articolo tratto dalla rivista nr. 49
Categorie: Decrescita
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