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La crisi finanziaria mondiale dell'autunno 2008

Alain De Benoist - 24/11/2008

Fonte: Centro Studi Opifice




Si dice spesso che capitalismo sia sinonimo di crisi, ovvero che esso si nutra delle crisi che provoca, oppure che la sua « facoltà d’adattamento » sia illimitata, lasciando così intendere che esso sia indistruttibile. In realtà, è necessario distinguere le crisi cicliche, congiunturali (descritte ad esempio dai celebri « cicli » di Kondratieff), dalle crisi sistemiche, strutturali (come quelle che ebbero luogo tra il 1870 ed il 1893, all’epoca della Grande Depressione del 1929, o quelle occorse tra il 1973 ed il 1982, quando una disoccupazione di tipo strutturale ha cominciato ad apparire tra i paesi occidentali). Con la crisi finanziaria attuale, è indubbio che ci si trovi di fronte ad una crisi strutturale, corrispondente ad una rottura della pertinenza logica e della coerenza dinamica della totalità del sistema. Giunta dopo la crisi del mercato azionario del 1987, la recessione americana del 1991, la crisi asiatica del 1997, l’esplosione della bolla dei valori Internet del 2001, questa crisi, molto più forte delle precedenti, è decisamente la più grave che si sia conosciuta fin dagli anni Trenta.

La maggior parte della gente comprende assai poco di ciò che sta accadendo. Gli si sono decantati per anni i meriti del « modello americano » ed assicurati i benefici della « mondializzazione felice ». Essa vede ora il modello americano diffondersi e la globalizzazione accrescere la miseria sociale. Lo spettacolo delle banche centrali - sia negli Stati Uniti che in Europa - che hanno immesso, dopo il 15 settembre, centinaia di miliardi di dollari e di euro sui mercati finanziari, le pone da pensare: da dove viene tutto questo denaro? Le domande inoltre si nutrono della sensazione che nessuno sembra veramente sapere che cosa si possa fare. Il relativo silenzio della maggior parte degli uomini politici a tale riguardo è significativo. Infine, la gente si domanda se questa crisi fosse o meno prevedibile. E se fosse stata prevedibile, perché non è stato preso alcun provvedimento tempestivo? Se viceversa non fosse stata prevedibile, non è questa una prova che nessuno controlla un sistema finanziario lanciato in una folle corsa in avanti?

Di fatto siamo di fronte ad una tripla crisi: crisi del sistema capitalista, crisi della mondializzazione liberale, crisi dell’egemonia americana.

La spiegazione più frequentemente avanzata per interpretare l’attuale crisi è l’indebitamento delle famiglie americane dal versante dei mutui ipotecari immobiliari (i famosi « subprimes »). Si dimentica soltanto di dire perché si siano indebitate.

Uno dei tratti dominanti del « turbo-capitalismo », corrispondente alla terza ondata della storia del capitalismo, è il completo controllo dei mercati finanziari globalizzati. Questo controllo dà un potere crescente ai detentori di capitale, ed in particolar modo agli azionisti, che sono oggi gli effettivi proprietari delle società quotate in Borsa. Desiderosi di ottenere un rendimento massimale il più rapido possibile dei loro investimenti, gli azionisti spingono alla compressione dei salari ed alla delocalizzazione opportunistica della produzione verso i paesi in via di sviluppo dove l’aumento della produttività va di pari passo con il basso costo salariale. Risultato: prima di tutto, l’aumento del valore aggiunto profitta ai redditi da capitale piuttosto che ai redditi da lavoro, la deflazione salariale si traduce nella stagnazione o nella perdita del potere d’acquisto della maggioranza della gente, e si ha infine la diminuzione della domanda solvibile globale.

La strategia attuale della Forma-Capitale è dunque di comprimere sempre più i salari, di aggravare crescentemente la precarietà del mercato del lavoro, producendo nel contempo un impoverimento relativo delle classi popolari e dei ceti medi che, nel tentativo di mantenere il loro tenore di vita, non hanno altra risorsa che l’indebitamento, nello stesso tempo che la loro solvibilità diminuisce.

La possibilità offerta alle famiglie di chiedere prestiti per sostenere le spese quotidiane o acquistare una casa è stata l’innovazione maggiore del capitalismo nel dopo-guerra. Le economie sono da allora state stimolata da una domanda artificiale fondata sulla facilità del credito. Oltreoceano, questa tendenza è stata incoraggiata dagli anni ’90 attraverso la concessione di condizioni di credito sempre più favorevoli (contributo personale prossimo allo 0 %), senza alcune considerazione sulla solvibilità di mutuatari ed imprestatari. Si è inoltre cercato di compensare il calo della domanda solvibile risultante dalla compressione dei salari attraverso l’entusiasmo per la macchina del credito. In altri termini, si sono stimolati i consumi attraverso il credito, non potendoli stimolare attraverso l’aumento del potere d’acquisto. È stato l’unico mezzo, per i detentori dei portafogli finanziari, di trovare nuovi giacimenti di rimuneratività, fosse anche al prezzo di rischi inconsiderati.

Da qui il faraonico indebitamento delle famiglie americane, che hanno scelto dopo tanto tempo di consumare piuttosto che di risparmiare (considerando inoltre che nel frattempo il 17 % della popolazione è già privo di ogni copertura sociale). Le famiglie americane sono oggi due volte più indebitate delle famiglie francesi, e tre volte più indebitate delle famiglie italiane. Il loro stesso sovra-indebitamento è praticamente uguale al prodotto interno bruto (PIB) degli Stati Uniti.

In seguito, si è speculato sui « crediti marci » dalla prospettiva della « cartolarizzazione », che ha permesso ai grandi attori della sfera del credito di sgravarsi - e di rendere liquidi – dai rischi di insolvibilità dei loro imprestatari. La « cartolarizzazione», che è un’altra fra le maggiori innovazioni finanziarie del capitalismo del dopo-guerra, consiste nella suddivisione in parti,  dette obbligazioni, di prestiti accordati con una banca o una società di crediti, per poi rivendere il montante, in altri termini il rischio, ad altri agenti finanziari appartenenti al mondo dei fondi di deposito. Si è creato così un vasto mercato del credito, che è nel contempo un mercato del rischio. È il crollo di questo mercato che ha provocato la crisi attuale.

Ma la presente è anche una crisi della mondializzazione liberale. La trasmissione brutale della crisi ipotecaria americana ai mercati europei è il frutto diretto di una mondializzazione pilotata e realizzata dagli apprendisti stregoni della finanza. Al di là della sua causa immediata, essa costituisce l’esito di 40 anni di deregolamentazione voluta da un modello economico globale secondo le ricette liberali.

È in effetti l’ideologia della « dérégulation » che ha reso possibile il sovraindebitamento americano, esattamente com’essa era già stata all’origine delle crisi messicana (1995), asiatica (1997), russa (1998), argentina (2001), ecc. D’altra parte, è anche la globalizzazione che ha creato una situazione nella quale le crisi maggiori si propagano oramai quasi istantaneamente, in modo « virale » come avrebbe detto Jean Baudrillard, per la totalità del pianeta. È per tale motivo che la crisi americana ha toccato così rapidamente i mercati finanziari europei, a cominciare dal mercato del credito, con tutte le conseguenze che può avere una simile ondata di shock in un momento in cui l’economia americana come quella Europea sono ai limiti della recessione, se non della depressione.

Da questo punto di vista, è una comica irresistibile osservare coloro che non demordono nell’incensare i meriti della « mano invisibile » e le virtù del mercato « autoregolamentato » (« è il mercato che si deve occupare del mercato», si legge regolarmente sul Financial Times) precipitarsi verso i poteri pubblici per chiedere loro ricapitalizzazioni o nazionalizzazioni di fatto. È la visione lampante dell’ipocrisia liberale: privatizzazione dei benefici e socializzazione delle perdite. Si sapeva già che gli Stati Uniti, grandi difensori del libero scambio, non si privano mai del ricorso al protezionismo ogni qualvolta esso giovi ai loro interessi. Ed ora si rende evidente come gli avversari del « big governement » si rivolgono allo Stato quando sono sull’orlo del fallimento. La nazionalizzazione di fatto di Fannie Mae e Freddie Mac, i due giganti del prestito ipotecario americano, rappresenta a tal riguardo un fatto senza precedenti. Mentre nel 1929 il governo americano fece l’errore di affidare la gestione della crisi ad un « sindacato di banchieri » diretto da Rockefeller, Henry Paulson, segretario del tesoro, e Ben Bernanke, presidente della Riserva Federale, oggi hanno deciso di nazionalizzare gli stabilimenti maggiormente minacciati. Decisione unica nella storia degli Stati Uniti dall’epoca di Ronald Reagan, ed intervento più radicale mai effettuato all’interno del privato mondo della finanza di tutta la storia della Riserva Federale. Si può qui osservare un brutale ritorno al principio di realtà. Ma è nel contempo, per l’ideologia liberale, l’affondamento di uno dei suoi principi di legittimazione (la sfera pubblica non deve mai interferire con i meccanismi del mercato, pena la perdita della sua efficacia).

Non si deve perdere di vista, infine, che questa crisi mondiale ha la sua origine negli Stati Uniti, ovvero in un paese che deve già fronteggiare un deficit di bilancio abissale, un debito estero che non cessa di crescere ed un deficit commerciale colossale. Dopo 10 anni, l’economia americana non ha più come motore la crescita dovuta alla produzione reale, ma l’espansione del debito e della rendita monetaria risultanti dal dominio mondiale del dollaro. L’indebitamento totale (debito pubblico + debito delle famiglie + debito delle imprese) rappresenta oggi l’equivalente del 410% del PIB (dunque il montante è di 13000 miliardi di dollari) - l’adozione del piano Paulson sarebbe tutt’al più chiamata ad aggravare il déficit!

Ora, la crisi non può che contribuire ad erodere la fiducia nel dollaro, che tenderà con tutta probabilità a diminuire ulteriormente. Il fatto che il dollaro sia nel contempo una valuta nazionale e un unità di conto internazionale, in più libera da ogni legame con l’oro dal 1971, ha permesso per lungo tempo agli Stati Uniti di affermare e di far pesare la loro egemonia mentre continuavano a registrare deficits colossali. Il procedimento è consistito – per gli Americani – nell’esportazione sistematica dei loro titoli di debito verso paesi eccedenti. Nell’avvenire, l’inquietudine dei grandi fondi pubblici e privati che, particolarmente in Asia, detengono quantità considerevoli di titoli pubblici e parapubblici americani (buoni del Tesoro ecc.), e dunque tanto credito nei confronti degli Stati Uniti, sarà determinante. Allo stato attuale, il 70 % di tutte le riserve straniere nel mondo sono costituite da dollari, e questa massa non ha da lungo tempo il minimo rapporto con il volume reale dell’economia americana.

Negli anni che verranno, non è impossibile che i paesi esportatori di petrolio abbandoneranno a poco a poco il dollaro (i famosi « petrodollari ») in favore dell’euro. A lungo termine, questa situazione potrebbe portare paesi come la Cina e la Russia ad assumere responsabilità finanziarie internazionali, e a mostrare come si rapporteranno nei confronti di una concezione alternativa all’ordine finanziario internazionale attuale. George Soros nella primavera scorsa  lo disse senza ambiguità: « il mondo si avvia deciso verso la fine dell’era del dollaro ».

 Adesso si rassicura sul fatto che sarà sufficiente « regolamentare » o « moralizzare » il sistema per evitare questo genere di crisi. Gli uomini politici, a cominciare da François Fillon e Nicolas Sarkozy, parlano di « deviazione della finanza », mentre altri stigmatizzano l’« irresponsabilità » dei banchieri, lasciando in tal modo intendere che la crisi non è dovuta che ad un’insufficienza di regolamentazione e che un ritorno a pratiche più « trasparenti » permetterebbe di rianimare e rimettere in gioco un capitalismo meno carnivoro. È un doppio errore. In primo luogo perché è precisamente l’impotenza dei politici nei confronti della crisi di efficacia del capitale che ha aperto la via alla liberalizzazione totale del sistema finanziario.

Di seguito e soprattutto, perché si ignora così la natura stessa del capitalismo. « Il capitale soffre ogni limite come un ostacolo », disse già Karl Marx. La logica dell’accumulo del capitale è l’illimitazione, il rifiuto di ogni limite, la razionalizzazione del mondo attraverso la ragione mercantile, la trasformazione di tutti i valori in merci, la Gestell di cui ha parlato Heidegger.

L’adozione del piano Paulson sarebbe certamente necessaria, ma avrebbe senza dubbio effetti perversi. In effetti, se le banche e le grosse società sull’orlo del baratro sono assicurate dal sostegno finanziario dei poteri pubblici, tale operazione rappresenta un incitamento indiretto al riprodursi delle stesse disfunzioni, conducendo così a nuove crisi speculative.

Nell’immediato, è significativo che né le iniezioni di liquidità provenienti dalla Riserva Federale e delle banche centrali, né l’adozione del piano Paulson sembrano aver provocato la reazione positiva sperata da parte dei mercati. È la chiara dimostrazione dei limiti di una politica puramente monetaria.

Nelle fasi di sovra-accumulazione del capitale, il rafforzamento del potere finanziario diviene la leva determinante di un’intera strategia volta ad aumentare la redditività del capitale stesso. Al di là della sola finanza, è infatti la regolamentazione dell’economia tutta attraverso il solo criterio del profitto, senza considerazione dei fattori umani, delle vite maltrattate, dell’esaurimento delle risorse naturali, dei costi non mercantili (le « esternalità negative »), che è messa in questione dalla crisi finanziaria. La causa ultima di questa crisi è la ricerca del profitto finanziario più elevato possibile nel minimo tempo, e dunque la ricerca dell’aumento massimale del valore del capitale ad esclusione di ogni altra considerazione.

Per un effetto «domino», la crisi può portare alle estreme conseguenze i difetti di pagamento a catena di tutti gli agenti economici, e dunque un affondamento del sistema finanziario mondiale? Ciò non accadrà. È possibile che le misure prese in queste ultime settimane siano di una natura tale da impedire al sistema finanziario di crollare completamente. Ma nel migliore dei casi, la crisi economica si avvia a perdurare a lungo, con una recessione (o una depressione) negli Stati Uniti ed un forte rallentamento in Europa, che provocherà un balzo della disoccupazione. Risulterà inoltre necessariamente un calo importante dei profitti, che si ripercuoterà inevitabilmente sui mercati e sull’andamento della Borsa. Contrariamente a ciò che si dice talvolta, la linea tra l’economia speculativa e l’economia reale è ben tracciata ed evidente. Le imprese dipendono a tutti gli effetti dal sistema bancario, non fosse altro che per il credito di cui necessitano per i loro investimenti. Ora, la crisi porterà le banche, fragili per l’accumulazione di cattivi debiti generati dal campo immobiliare, a ridurre brutalmente i loro crediti (è il « credit-crunch »). Le conseguenze politiche e sociali si faranno sentire molto presto.

Le difficoltà sono appena all’inizio.

Alain de Benoist
Parigi, 10 ottobre 2008
(traduzione per opifice.it di Simone Belfiori)

 

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Categorie: Politica e Informazione








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