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L'ENI in Iraq

- 23/10/2009




L’Ente Nazionale Idrocarburi (ENI), uno dei pochi “gioielli” rimasti sotto controllo statale (azionista di maggioranza relativa), si è aggiudicato nei giorni scorsi, dopo lunghe trattative, un importante accordo per la produzione del petrolio nel giacimento di Zubair, in Iraq, uno dei più grandi in Iraq (195mila barili al giorno).

In molti hanno letto questo accordo come primo risultato dell’apporto italiano alla missione di occupazione dell’Iraq delle forze alleate. Chi, da una parte, parla di “imperialismo italiano” (sic! Come faccia un paese a sovranità molto limitata ad essere imperialista, solo iddio lo sa), chi, dall’altra, di “sacrificio dei militari giustificato da interesse nazionale”. Il Foglio di Giuliano Ferrara parla di una missione militare a Nassiriyah che “ha lasciato un ottimo ricordo” favorendo in questo modo gli accordi.

Credo che sia importante, però, mettere qualche “puntino sulle i” per smentire queste consecutio logiche che non reggono.

Innanzitutto va sottolineato che l’ENI è “di casa” in Iraq dagli anni 70, grazie alle lungimiranti intuizioni di Enrico Mattei.

Nel 1990, con l’Iraq nel pieno dell’embargo internazionale, l’Eni firma un Production Sharing Agreement con l’azienda petrolifera di Stato irachena per lo sfruttamento del giacimento petrolifero di Nassiriya. L’accordo, secondo un documento del Dipartimento del Commercio statunitense, è in compartecipazione con la spagnola Repsol, vale 2 miliardi di dollari, e ha una durata di 23 anni dall’aprile 1997. A dimostrazione dei buoni rapporti tra aziende europee e regime di Saddam Hussein c’è l’intenzione del Rais di Baghdad di cambiare la moneta di riferimento per gli scambi petroliferi dal dollaro all’euro (motivo, tra gli altri, per cui fu scatenata dai neo-cons la campagna anti-iraqena) .

Una dimostrazione di come le posizioni di Francia, Germania e Russia, all’inizio della guerra miravano alla salvaguardia dell’interesse europeo, a differenza dei lacchè atlantisti che decisero di partecipare all’iniziativa miliare.

La diceria della continuità tra missione militare e accordo commerciale cade, inoltre, se consideriamo che le forze armate italiane sono di stanza a Nassiriyah, dove lo sfruttamento dei giacimenti di petrolio è stato aggiudicato alla giapponese Nippon Oil, e non a Zubair.

Senza dimenticare che anche molte aziende cinesi statali stanno ottenendo importantissimi appalti, senza però aver speso un solo uomo in alcuna missione militare.

Bisognerebbe spiegare, quindi, agli pseudo esperti di cose economiche che gli appalti si ottengono con capacità di negoziazione, con bassi costi, con le qualifiche nell’installazione degli impianti e nell’offrire piani di ricerca, non con truppe che occupano territori.

A ulteriore dimostrazione che i costi (umani e non) veri o presunti delle missioni militari in Afghanistan (dove speriamo siano vere le voci che parlano di accordi tra Sismi e Talebani per salvaguardare i nostri soldati in una guerra che non ci appartiene, un po’ di realismo e cinismo non fa mai male) e Iraq non sono giustificati da nessun interesse nazionale o continentale.

 

Marco Bagozzi

 

Testo tratto da www.cpeurasia.org.

 

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Categorie: Politica e Informazione











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