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L'Ecologia Profonda

Guido Dalla Casa - 15/05/2009




L’idea più corrente che viene evocata nell’opinione pubblica quando si parla di azione “ecologista” o “verde”, è che questa consista essenzialmente nel vigilare affinché il “naturale progresso dell’umanità” avvenga senza inquinamenti e senza modificare troppo l’ambiente, che è considerato bello e quindi “da salvare”. In sostanza, quella che viene chiamata azione ecologista è la “protezione dell’ambiente”: non inquinare, mantenere pulito il paesaggio, installare filtri e depuratori e conservare qua e là alcune isole di natura dove recarsi a scopo ricreativo, i “Parchi”.

La componente di pensiero sopra accennata è oggi abbastanza presente nell’opinione pubblica e la sua massima diffusione è certamente utile. Tutto questo non è sufficiente, perché il problema ecologico nasce dall’atteggiamento della cultura dominante, dal pensiero di fondo della civiltà industriale, dal suo inconscio collettivo. È un problema filosofico, molto più che un problema pratico o tecnico. Se  non si modifica profondamente la visione del mondo, si ottengono solo risultati transitori, effetti di spostamento nel tempo, pur utilissimi, di problemi insolubili.

L’uomo è una specie animale che fa parte dell’Ecosfera, non ne è staccato, né è depositario o custode di niente. Questo non sminuisce l’importanza della nostra specie, anzi attribuisce un valore profondo a tutta la Vita: dopotutto un gruppo di cellule è molto più importante ed ha un significato molto maggiore quando fa parte integrante di un Organismo di quanto ne abbia se è isolato o mantenuto quasi isolato in una sua coltura.

Perché si cambi una visione del mondo, cioè una cultura, si richiedono di solito tempi dell’ordine di un paio di secoli. Ma non si salverà la Madre Terra senza un tale capovolgimento, cioè senza la fine della civiltà industriale, che è l’espressione attuale della cultura occidentale e l’applicazione pratica del materialismo. Invece, una volta scomparsa o modificata profondamente la visione del mondo dell’Occidente, il problema ecologico non esisterà più. Le culture umane con una visione del mondo che comportava un modo di vivere ecologico non sapevano cosa fosse l’ecologia: questo conferma che ciò che respiriamo fin dalla nascita ci appare ovvio, il che significa che non ci appare affatto.

La civiltà industriale è di per sé una cultura non ecologica; inoltre:

  • si considera una meta agognata da tutte le civiltà tradizionali, vede i propri pregiudizi come frutto della natura umana e la propria scala di valori come un punto di arrivo per tutta l’umanità;
  • distrugge le altre culture fagocitandole e imponendo le proprie concezioni di fondo, cioè assimilando a sé ogni varietà culturale;
  • è in sostanza il processo che sta divorando la Terra: solo la sua fine può risolvere il dramma ecologico.

Anche se le schematizzazioni sono sempre riduttive, al solo scopo di intendersi più facilmente, adotterò la distinzione del filosofo norvegese Arne Naess, dividendo il pensiero ecologista in due categorie:

  • l’ecologia di superficie, che ha per scopo la diminuzione degli inquinamenti e la salvezza degli ambienti naturali senza intaccare la visione del mondo della cultura occidentale;
  • l’ecologia profonda, in cui vengono modificate radicalmente le concezioni filosofiche dominanti dell’Occidente: in questa forma di pensiero si dà un’importanza metafisica alla Natura, superando il concetto restrittivo e fuorviante di “ambiente dell’uomo”. In un certo senso non c’è più bisogno del concetto di ecologia, come avviene nelle civiltà tradizionali.

Una delle obiezioni all’ecologia profonda è che non comporterebbe azioni concrete: è bene evidenziare ancora che le svolte culturali non sembrano concrete solo perché si svolgono su tempi lunghi. Sono però molto più profonde e radicali. Probabilmente la rivoluzione copernicana e la concezione evoluzionista sembravano assai poco “concrete” agli effetti della vita pratica. Eppure hanno causato modifiche di atteggiamento che si risentono per secoli e da cui derivano intere serie di scoperte-invenzioni fin troppo “concrete”. Cartesio non poteva certamente immaginare quali conseguenze pratiche avrebbe avuto il diffondersi del suo pensiero dopo qualche secolo.
Si parla sempre dei vari tipi di “crisi” in cui si dibatte il mondo attuale, ma ben raramente si evidenzia che si tratta di un’unica crisi globale e culturale: è la nostra civiltà che rivela il suo fallimento.
Non è possibile pensare di salvare il mondo dalla catastrofe ecologica senza analizzare il concetto di sviluppo e senza ricordare che questo concetto è il prodotto  di una sola cultura umana in un determinato momento della sua storia: la Natura viene distrutta dal “démone del fare” che divora l’Occidente e dalla sua smania di “modificare il mondo”. L’Occidente, preda dei démoni dell’avere e del fare, ha dimenticato il vivere, il conoscere e l’essere.

Bisogna avere il coraggio di dimenticare “il progresso” e di mettere in pensione la crescita economica, coscienti anche del fatto che questa crescita porta con sé chiari segni di profondo disagio sociale e psicologico: l’avanzamento degli indici economici comporta la diminuzione degli indici “vitali” (varietà di specie ed ecosistemi) e della serenità mentale (droghe, suicidi, delinquenza), anche se questi dati non vengono di solito evidenziati.

Per tutti questi motivi, pur considerando pienamente valide le azioni proposte in pratica dall’ecologia di superficie, nei capitoli che seguono proporrò alcune domande:

  • Perché il dramma ecologico è nato proprio nella cultura occidentale?
  • Perché consideriamo la civiltà occidentale ed i suoi miti come quelli “veri”?
  • Che cosa sono lo sviluppo e il benessere?
  • Il concetto di progresso è universale ed evidente?
  • Che posizione ha la nostra specie nell’Universo?
  • Cosa ne pensavano le altre culture umane?

Comunque cercherò di evidenziare i guai dell’Occidente solo perché è la cultura dominante e per mettere in luce molte idee di cui non si parla solo perché sono considerate ovvie. Ma non intendo dimostrare che l’Occidente è una cultura “peggiore” delle altre: è una cultura come le tante altre apparse sulla Terra. Come segno di speranza, passerò poi a un rapido esame di alcune tendenze di pensiero nate nel ventesimo secolo, che assomigliano a molte idee di fondo di altre culture.

Se un nuovo paradigma divenisse il sottofondo del pensiero corrente, si avrebbe la fine del materialismo e quindi di questa civiltà. Inoltre manteniamo viva la speranza che si salvi la diversità culturale.

In definitiva, poiché la distruzione degli equilibri naturali è opera della civiltà industriale e della sua tumultuosa espansione, per ottenere qualche miglioramento globale e permanente in questo campo è necessario:

  • intaccare le concezioni che l’hanno fatta nascere;
  • porre in discussione la sua visione del mondo.


Testo tratto da L'Ecologia Profonda - Lineamenti per una nuova visione del mondo di Guido Dalla Casa

 

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Categorie: Ecologia e Localismo

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