C’era una volta un prato
Le conseguenze nefaste dell’allevamento intensivo sulla biodiversità dei nostri prati
Sergio Abram - 30/11/2011
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Chi è nato e cresciuto in campagna a stretto contatto con la natura (quella ancora vera d’un tempo), conosce il valore di un prato ricco di specie fiorifere. Qualche decina d’anni fa erano tanti i prati che nel corso di alcune settimane esprimevano tutta una scala di variopinti colori, spesso combinati tra loro, nelle diverse sfumature.
Fiori, profumi, insetti e uccelli
La natura è stata il mio primo e più grande maestro e il prato è stato una fonte di ricerca molto importante per la mia formazione naturalistica. Quanti fiori ho raccolto in grossi mazzi, da bambino, nei mesi di maggio e di giugno, per portarli davanti alla statua della Madonna e del Sacro Cuore! Erano i mesi in cui i prati esprimevano al massimo la biodiversità: la fragranza dei profumi, i movimenti delle erbe ondeggianti, accarezzate dal vento e sorvolate da innumerevoli insetti e da allegre rondini zigzaganti. Quando l’erba veniva falciata, il profumo del fieno, ricco di essenze, si propagava ovunque. Questi erano i prati, che permettevano la vita a una ricchissima varietà di insetti, di uccelli, di mammiferi e di altri animali. Assicuravano la salute anche a molti animali domestici, tra cui le vacche, che allora mangiavano quasi unicamente erbe e fieno, ricchissimi di specie botaniche medicinali. Allora le stalle ospitavano pochi animali, se paragonate a oggi, e le malattie, le mastiti in particolare, erano un evento raro. In alcuni territori le vacche, oltre che per la produzione del latte e di un vitello ogni anno, erano utilizzate pure per il traino di carri, per l’aratura e per altre attività connesse al lavoro dei campi.
Il letame era convenientemente compostato e cosparso nei prati normalmente una sola volta all’anno, in autunno-inverno. Era originato dall’erba o dal fieno del prato, digeriti dagli animali; quindi quando ritornava nel terreno aveva una simile frequenza specifica, che, anche per effetto della compostazione, lo rendeva adeguatamente assimilabile. Un tempo, anche in presenza di colture fruttifere, l’erba tra i filari, sfalciata, veniva asportata per l’alimentazione del bestiame.
Troppe mucche in poco spazio
L’avvento dei fitofarmaci di sintesi – molto impattanti per ogni elemento naturale – ha portato all’abbandono del prelievo dell’erba e del fieno dai frutteti, dai vigneti e da altre colture, perché le essenze floreali che subiscono trattamenti sintetici venefici non sono più adatte a essere utilizzate come foraggio.
In vasti territori, al fine di aumentare la produzione di erba e di fieno, si è provveduto a concimare i prati con fertilizzanti chimici sintetici, che inizialmente erano spesso aggiunti a grandi quantità di letame non adeguatamente compostato. L’avvento di capienti stalle, spesso sovradimensionate rispetto alla capacità produttiva dei territori circostanti, induce all’acquisto di mangimi, anche per forzare la produzione di carne e di latte. Ne consegue una produzione di letame eccessiva rispetto alla recettività del territorio coltivato. Letame che ha un forte impatto ambientale, soprattutto se combinato a concimazioni chimiche sintetiche.
C’è da chiedersi quali garanzie per la salute della Terra, degli umani, del bestiame allevato, degli animali selvatici, possono dare quei prati concimati con fertilizzanti che contengono i residui chimici dei mangimi industriali e sono così tristemente privi di piante fiorifere. Appare evidente che la spesa attuale per la salute degli animali domestici e degli umani è notevolmente aumentata rispetto a un tempo. Un bovino adulto, allevato in pianura, dovrebbe avere a disposizione almeno un ettaro di prato per la sua alimentazione annuale e un bovino allevato in montagna, dove la produzione di foraggio è molto più contenuta, dovrebbe disporre di un estensione territoriale molto maggiore. I dati relativi alle province autonome di Bolzano (Alto Adige-Sudtirolo) e di Trento (Trentino) evidenziano un rapporto bovini/superficie di prato disponibile, espressa in ettari, rispettivamente di 2,5 : 1 e 7,5 : 1.
Arido e senza fiori
In Trentino-AltoAdige regione in cui abito, le stalle, perlopiù di medie e grandi dimensioni, sono localizzate quasi esclusivamente in collina e in montagna, nelle aree in cui non è giunta la coltivazione intensiva del melo, della vite e di altri frutti. Qui, spesso per la scarsità di territorio da utilizzare per l’alimentazione del bestiame, i prati hanno perso pressoché ovunque la loro ricchissima biodiversità. Troppo spesso sono quasi privi di fiori, ne hanno in numero limitato e costituito da poche specie, o se ne hanno in abbondanza sono perlopiù costituiti da bianche ombrellifere, derivanti da superconcimazioni azotate. Molto più sovente le poche piante fiorifere non ombrellifere sono relegate nelle scarpate o nei pochi decimetri di terreno addossati ai confini delle proprietà, dove le destabilizzanti concimazioni non arrivano. I liquami e lo stallatico sono spesso cosparsi sul prato ancora in fase di compostazione, tanto che il fetore prodotto dalle loro esalazioni permane per giorni e si espande in vasti territori, rendendo l’aria irrespirabile.
Di fronte a questo quadro si può tranquillamente affermare che la causa della scomparsa o della riduzione di molte specie fiorifere dai prati è imputabile soprattutto all’inadeguata fertilizzazione – che comprende un eccesso di stallatico e di liquami per di più non convenientemente compostati, a cui talvolta si aggiunge un ulteriore apporto di fertilizzante sintetico. Questa pratica produce momentanee variazioni di valori di pH nel terreno, le quali a loro volta incidono sulla presenza o meno di determinate specie fiorifere.
Spesso, uscendo nei prati dell’alta valle, in cui abito, avverto il grande disagio dei prati, che sembrano imprecare verso i contadini gridando: “Tenetevi la vostra merda e lasciateci la nostra erba!”. L’erba di un prato, infatti, è importantissima per la salute e la vitalità dello stesso: se viene tagliata e abbandonata in loco è un ottimo fertilizzante e induce la produzione di una ricchissima vegetazione fiorifera.
In alta montagna
Anche i magri prati d’alta montagna, che sono annualmente privati delle loro erbe e dei loro fiori e che non subiscono mai concimazioni, hanno strabilianti fioriture. Fino a circa una decina d’anni fa, gli appezzamenti prativi della mia valle, siti tra i 900 e i 1.100 metri di altitudine, sebbene già in fase di vistoso degrado, in primavera erano ancora frequentati da diverse specie di uccelli, che pure vi nidificavano, tra cui una ventina di maschi in canto del raro re di quaglie, decine di quaglie, di stiaccini, di saltimpali, di zigoli gialli e di allodole. Ora questi uccelli e molte specie d’insetti – tra cui bombi, api selvatiche e farfalle – sono quasi completamente scomparsi.
A questo quadro agreste poco idilliaco, si aggiungono la drastica riduzione o la totale scomparsa delle siepi, dei fossi e delle aree umide, dei margini incolti e l’impiego di pesanti e potenti mezzi agricoli, che compattano eccessivamente il terreno e che non permettono l’affermarsi di una ricca biodiversità.
Questi fatti dovrebbero indurci a pensare che potrebbe essere giunto il momento di cambiare rotta e di avviarci velocemente e senza indugio verso l’adozione di pratiche agronomiche naturali, rispettose dell’ambiente e di tutti gli esseri viventi.
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Articolo tratto dalla rivista nr. 24
Categorie: Ambiente
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